Grafica, food e fantasia
“C’è bisogno di qualcosa che si vede ogni giorno, qualcosa che chiunque possa riconoscere. Qualcosa come un barattolo di Campbell’s Soup”
Lo spirito del Pop è riassunto in questa frase che la gallerista Muriel Latow avrebbe detto al promettente Andy Warhol, deciso a rompere con gli schemi tradizionali del fare arte, per andare ben più in là, oltre il readymade di Duchamp e le manipolazioni dei Dada.
Frase che è stata consegnato ai ragazzi del Primo Anno del Master di Grafica Pubblicitaria➤ dopo la visita all’esposizione “Attorno alla Pop Art nella Sonnabend Collection” e che ha prodotto interessanti osservazioni sugli oggetti d’uso quotidiano elevati ad icone, simboli di nuovi valori e sull’aggiornamento del linguaggio artistico con nuovi strumenti di lettura e di espressione. Ecco, in questo primo blog, i commenti di alcuni nostri allievi. Cominciamo con Marta Bobbo e Valeria Dessì.
Pop Art Food
Qual è una delle maggiori caratteristiche della Pop Art? Elevare oggetti comuni ad opere d’arte.
E infatti, uno dei temi trattati dalla Pop Art è il cibo. Non quello sontuoso ed inarrivabile delle classiche nature morte, ma cibo industriale e accessibilissimo, basta allungare una mano e prenderlo dallo scaffale del supermercato, chiunque può farlo: un senzatetto, una casalinga stanca, un riccone… Questa comune possibilità, che tanto entusiasmava Andy Warhol, è in effetti un simbolo “buono” del sogno americano: lo stesso cibo, per tutti.
Com’è quel modo di dire? “Roba che potevo fare pure io”. E in un certo senso è vero: tutti possono scaldare un barattolo della Zuppa Campbell di Warhol (magari togliendola prima dal barattolo, ma c’è gente che salterebbe il passaggio).
La Sliced Bologna (una specie di salume americano chiamato così perché sarebbe simile alla mortadella… sorvoliamo) ritratta da James Rosenquist non va neanche scaldata, basta affettarla e schiaffarla tra due fette di pane.
L’Hot Dog di Roy Lichtenstein non lo devi neanche preparare: puoi comprarlo da un ambulante a qualsiasi angolo di strada, o mentre guardi una partita di football o baseball, altri simboli del sogno americano.
Il tacchino della Still Life #45 di Tom Wesselmann invece richiede più tempo e dedizione, ma ne vale la pena: come rinunciare al rito del Giorno del Ringraziamento, in cui si ringrazia per ciò che si ha? (Salvo calpestarsi a vicenda il giorno dopo, durante i saldi del Black Friday).
Ma se ciò che raffigurano queste opere è comune, non lo è l’idea che le ha generate, ed il modo in cui vengono realizzate: le Campbell’s Soups di Warhol sono serigrafie rivisitate mediante la ripetizione seriale precisissima, i “graffi”, i cambiamenti di colore.
Rosenquist, nato cartellonista pubblicitario, ha pitturato la sua “bologna” in dimensioni enormi, e per di più su una tenda di plastica da macellaio, di quelle “affettate” come la bologna dipinta, così che quando l’osservatore ci passa attraverso (perché questo era l’intento originale) quasi annega in questa saturazione.
L’Hot Dog di Liechtenstein è realizzato con lo smalto di porcellana utilizzato nelle metropolitane, altro simbolo dell’America democratica: ci viaggia il senzatetto, per dormire al caldo, l’uomo d’affari che vuole evitare il traffico, e lo studente che va a scuola.
Il tacchino, gigantesco, “plasticoso” e prepotente come la visione della famigliola felice anni ‘50, Wesselmann lo prende dalle esposizioni dei supermercati americani, unendolo con il suo stile di assemblaggio a colori festosi (o aggressivi?) e a rose fuori tema.
Anche se il cibo Pop Art è da discount, non è scontato. Resta un dubbio a tormentarci: se la Pop Art fosse esplosa adesso, avremmo avuto la Zuppa di Pollo, la Bologna, l’Hot Dog, il tacchino… o sarebbe stato tutto tofu?