Uffici, sale d’aspetto di aereoporti, stazioni di metropolitane e vetture; telefoni muti ed armadi isolati, chiusi; sedie vuote, terminals passeggeri deserti. E’ forse la completa mancanza della figura umana, ma anche l’arguzia pungente e allo stesso tempo desolata con cui esplora questi luoghi, a rendere le immagini di Amze Emmons così surreali. La sue sono immagini scarne ed essenziali, assomigliano a progetti architettonici e di design, realizzate come sono con pochi segni a volte molto leggeri; tuttavia i colori usati (fuxia, arancione, rosso, giallo, turchese) sono quasi sempre vivi, violenti, e rimandano alla tradizione dell’arte pop. Il realismo di queste immagini è assolutamente minimalista, e ci mostra un artista, che, come afferma egli stesso, è “interessato ad utilizzare gli spazi architettonici che ci circondano come metafore del modo in cui viviamo, per discutere ed esplorare questioni quali l’alienazione, la dislocazione, la globalizzazione. Penso che il mio lavoro sia un investigare l’architettura in cui ci rifugiamo tutti i giorni”.
In alcune immagini sembra che Emmons riesca a trovare, come scrive la critica Cate McQuaid, “il sublime nel banale”. Molti luoghi in cui si svolgono le nostre esistenze sono sorti per utilità, non certo per bellezza: li utilizziamo tutti i giorni senza soffermarci troppo sulla loro banalità, senza renderci conto di quanto la loro bruttezza possa influenzare ill nostro modo di vivere e di sentire, le nostre emozioni ed i nostri sentimenti.
Varie sono le tecniche che il giovane Amze, che ha conseguito il Master in Belle Arti nel 2002 all’Università dell’Iowa, utilizza ed ha utilizzato: serigrafia, litografia, xilografia; e ancora pittura, grafite, collage, il tutto mixato per ottenere un “processo ibrido, che abbracci tutti i contraddittori impulsi” che questi luoghi e spazi causano in noi.
La necessità di una ricerca di questo genere sorge in Amze Emmons dalla “consapevolezza nomade e dal senso di transitorietà e dislocazione” che attanaglia noi uomini del XXI secolo, abitanti di quest’era “globale” che ci permette di andare ovunque nel mondo in poche ore, “facendo così collassare il nostro senso di appartenenza ad un determinato luogo e comunità”. Ed ecco che le immagini create vogliono dipingere “il vago terreno della nostra quotidianità, nel bel mezzo delle insorgenze architettoniche che ci circondano”, esplorando “le infrastrutture culturali presenti nel nostro ambiente costruito”. Il tutto è indagato grazie all’attento calibrare le forme geometriche pure, che producono un surreale ed ambiguo senso dello spazio.
Nicoletta Consentino