Pietro Ricca – Dar forma alle idee
Recentemente ho conversato con una ragazza che aveva studiato grafica alle superiori. Mentre chiaccheravamo ho citato il Professor Ricca, docente di layout. Lei, stupita, mi ha chiesto: “Cioè, voi avete come materia proprio solo il layout?”. Sì, ce l’abbiamo. Ed ecco perché.
Parliamo un po’ di lei: qual è la sua storia?
Al Sud abitavo in un quartiere pieno di botteghe artigianali dove si realizzava di tutto: dalle decorazioni degli ultimi carretti siciliani al restauro di fregi tardivamente liberty alle ceramiche decorative. Affascinato da questa manualità è stato naturale iscrivermi, dopo lascuola media, alla scuola d’arte.
Quando si è trasferito al Nord?
Una volta diplomato all’istituto d’arte mi sono trasferito a Venezia con l’intento di iscrivermi alla facoltà di Architettura. Per accedervi era necessario il diploma del Liceo Artistico, diploma che ho conseguito, studiando privatamente, due anni dopo. Nel frattempo ho frequentato i tre anni del Corso Superiore di Disegno Industriale dove ho avuto come insegnante di design grafico Giulio Cittato.
Ha lavorato con lui?
Giulio aveva progettato il logo di COIN, e quando hanno avuto bisogno di un illustratore per la realizzazione di un manuale, ha suggerito il mio nome, e così sono entrato nella Madison, l’agenzia di pubblicità della COIN dove ho lavorato come free-lance dal ‘72 in poi. Nel 1976 mi sono laureato in Architettura.
Come è arrivato alla nostra Scuola?
Ho incrociato Adriano Lubrano, che nel 1990 era consulente per un’azienda e cercava un illustratore. Ci presentò Enzo Scarpa. Poi Adriano mi chiese di venire ad insegnare in questa Scuola. (Aggiunge Adriano Lubrano: “Già allora, nell’ambiente pubblicitario, quello di Pietro Ricca era un nome famoso, e aveva lavorato per le più importanti agenzie del Veneto”.)
Lei insegna tecniche di visual: vuole spiegarci di cosa si tratta?
Si tratta di dare corpo alle idee, con strumenti semplicissimi: una penna e una scatola di pennarelli Turbo Giotto, una scatola di pastelli, 4-6 pennarelli Pantone. Si comincia usando solo la penna quando l’idea è più nebulosa, poi man mano strumenti più complessi e disegni più definiti e grandi: da uno schizzo grande come un francobollo fino alla composizione della “pagina” da presentare al cliente.
È necessario tener presente che chi fa layout dev’essere ricco sia culturalmente che tecnicamente. E avere una mente ricettiva e aperta. Spesso si riceve un vago scarabocchio, e sta a noi decidere tutto: la figura, lo spazio che occupa, i modelli, l’abbigliamento, i font da usare, la gestione dei particolari, l’interlinea, imitare il segno che sottende la fotografia come quello che sottende l’illustrazione. Inoltre, bisogna mettersi nei panni di chi dovrà eseguire tecnicamente il tutto fino alla stampa finale. Con l’avvento del digitale e delle banche di immagini le cose sono molto cambiate.
Qual è stato il suo progetto più ampio?
Tutti i miei ultimi lavori: un libro sulla Venezia del 1500, oltre centoventi pagine fittamente disegnate. Un libro sull’infanzia di Marco Polo e un libro sull’architettura di Milano dal 1920 al 2016 di oltre 350 disegni. Per ogni progetto ho conservato tutta la documentazione possibile: dalla sceneggiatura agli schizzi, dai sottolucidi ai definitivi fino all’impaginazione di ogni singola pagina.
Perché il layout deve essere fatto con penne e colori, e non matite?
Perché le idee o i concetti vanno buttati giù velocemente, e, pur imperfetti, disegnati con la penna permangono. La matita si cancella, e poi magari si ripete lo stesso errore: la matita non lascia memoria.
Il suo metodo di insegnamento ha radici storiche: l’apprendistato. Come i maestri rinascimentali, lei lavora, e gli studenti imparano osservandola e seguendo i suoi consigli.
Considera che quarant’anni fa non avrei potuto insegnare come adesso perchè non avrei avuto le conoscenze necessarie. Tutto ciò che ho fatto in questo tempo ha aumentato il mio bagaglio culturale e tecnico, che cerco di trasmettere ai miei studenti: fin dalla giovanile pratica della fotografia in camera oscura, nella grafica d’arte, disegnatore in uno studio di architetti… e l’esperienza che faccio quotidianamente. Tutto contribuisce a insegnare a saper vedere. Il bello del mestiere del grafico è che c’è sempre spazio per il miglioramento. Osservi e apprendi sempre cose nuove, alzando la qualità del lavoro e ottimizzandone i tempi.
Come avveniva appunto nelle botteghe artigianali.
Crede che ci sia questa cultura dell’apprendimento, per dirla alla veneziana, alla “robar co l’ocio” nelle agenzie di comunicazione? Pensa che sarebbe auspicabile?
Sarebbe auspicabile: quando frequentavo le agenzie da freelance lo vedevo fare, ma adesso si pretende che il giovane creativo arrivi in agenzia già pronto. È un atteggiamento riduttivo, anche per l’azienda, che non investe nella formazione di quello che potrebbe essere un valido elemento.
E non è leale nei confronti del giovane che viene a lavorare.
Marta Bobbo